lino cardarelli
19 October 2020

I ragazzi di Via Cremona, il casermone dei ferrovieri

lino cardarelli
19 October 2020

 

Sono uno degli oltre 150 ragazzi/e di via Cremona, il mitico Casermone dei Ferrovieri di Parma: 96 famiglie distribuite fra 12 scale su 4 piani, con una media di 3 figli.

Al n. 12, dove io abitavo al quarto piano con i miei due fratelli e tre sorelle, c’erano i Rossi, con otto figli, così come i Cagnin. Solo i Salomoni avevano un figlio unico. C’erano poi i Mutti, di cui Carlo era l’unico ad avere allora la radio. La spostavamo sul pianerottolo del secondo piano quando c’era la partita della Nazionale, che potevamo vivere grazie alla verve e al calore del linguaggio del favoloso Niccolò Carosio. Il suo ripetuto urlo “rete!!” ci faceva saltare di gioia, fin quando il nostro rumoroso abbraccio veniva sciolto da un mesto “no! … quasi rete”. E si tornava a “bruciare” in attesa del successivo urlo.

 

La radio, fabbrica di sogni

La radio è stata fondamentale per avviare al calcio tanti ragazzi di via Cremona: uno straordinario strumento, fabbrica di sogni e fonte di irraggiungibili momenti romantici. Ed è ancora la radio che tengo accesa per ascoltare ed emozionarmi alla partita che posso seguire mentre lavoro. Perché la radio ti fa capire che il “risultato” non basta se non ti emozioni, non immagini e vivi a modo tuo la partita. Che puoi anche vincere. Di una partita di calcio, diceva Gianni Rodari, “occorre parlare come di un processo, perché i suoi eventi sono tanti e vanno trattati, schematizzati, illustrati nel dettaglio come eventi storici“. Sembra che da questa sua intuizione sia nato “Il Processo” di Aldo Biscardi, di cui peraltro Rodari era amico.

Non è questo, e non vuole esserlo, un Amarcord, bensì un viaggio sentimentale, che parte da via Cremona e da viale Piacenza, dove si giocava scalzi, spesso con una palla di stracci e ci si interrompeva, di tanto in tanto, al passaggio di qualche auto. 

 

Dalla strada al primo vero campo da calcio

Il primo trasferimento dalla strada ad un vero terreno di gioco, segnato dal gesso e dalle bandierine del corner, è stato quando si è reso disponibile, per i campionati provinciali, il campo della Scuola di Applicazione, proprio di fronte a Via Cremona, con sullo sfondo il maestoso palazzo Ducale ed i giardini pubblici.

Alla domenica mattina ci si andava per vedere le prime partite dei campionati provinciali con in campo, fra i tanti che voglio ricordare, l’esuberante portiere Alberto Michelotti, divenuto un bravo ed autorevole arbitro internazionale e il possente Mario Percudani, passato poi alla mitica Rugby Parma, per tre anni campione d’Italia e, in seguito, alla Nazionale.

CAMPIONATO 1975/76 INTER VS JUVENTUS 1-0. SIAMO QUASI ALL’80o MINUTO. IL BIANCONERO LUCIANO SPINOSI COMMETTE FALLO SU SANDRO MAZZOLA. L’ARBITRO ALBERTO MICHELOTTI, A POCHI PASSI, FISCHIA IL CALCIO DI RIGORE 04/04/1976

E’ l’inizio degli anni ’50 quando si segnala il sorpasso del “calcio” sul ciclismo quale sport più popolare. Ciò è avvenuto grazie ad una serie di istituzioni collaterali al Coni, per lo più appartenenti al mondo cattolico, come gli Oratori e gli spazi prospicienti alle chiese. Erano attrezzati alla bella e meglio, con le porte disegnate sui muri di cinta e il terreno di gioco di asfalto, coi più fortunati su terra battuta.

Sono questi i luoghi che hanno fatto crescere il calcio fra gli  sport amatoriali e che hanno poi fornito tanti campioni. Ci si allenava, nel palleggio, giocando con una pallina da tennis per ore contro i muri che delimitavano il campo. Per cui, la linea di fondo del terreno da gioco non era la linea di confine; piuttosto, un punto di disciplina, di continuità e di raccordo con altri spazi di gioco. Così si è costituita la squadra di San Benedetto, la Victoria, di cui sono stato sempre “il capitano” per guidare la squadra nei duri, ma leali scontri con la San Leo, gli Stimattini della Frassati, l’Arsenal, il Rapid, l’Alcione, la Giovane Italia, il Castelletto, la Vigor. Tutte squadre parmigiane che hanno fornito fior di calciatori nelle serie superiori, finanche ottimi nazionali. Uno per tutti, l’indimenticabile Bruno Mora.

 

L’epoca del grande Torino

Era l’epoca segnata ancora dai goal di Piola, dalle rovesciate a forbice di Parola, dai dribling di Biavati, della trottola Muccinelli e del grande Torino di capitan Mazzola che si è schiantato, in una nebbiosa giornata, sulla collina di Superga al rientro in aereo da una trasferta in Portogallo. 

Il grande Torino

Già allora, da poco abbattuta l’autarchia fascista, si cominciava a guardare all’estero, a leggere i romanzi di Steinbeck, di Orwell e la stampa internazionale: scoprimmo che la ‘perfida albione’ erano “i maestri inglesi”, quelli che avevano esportato il calcio nelle loro colonie e c’era chi ricordava a noi ragazzotti qualche significativa notizia sul calcio: per esempio, che la prima partita del campionato in Italia, a quattro squadre, vinto dal Genoa, era datata 8 maggio 1898 e giocata a Torino.

 

Il Brasile che faceva sognare

C’è un detto, in Brasile, che recita più o meno così: «Ancora oggi, se chiedi a un brasiliano chi è Pelé, il vecchio si toglie il cappello, in segno di ammirazione e di gratitudine. Ma se gli parli di Garrincha, il vecchio chiede scusa, abbassa gli occhi e piange».

Ci faceva già sognare anche il Brasile dove il calcio, portato anche lì dagli inglesi nel 1894, solo pochi anni dopo l’abolizione della schiavitù del 1888, fu subito accolto con entusiasmo dai ‘bianchi’ che lo introdussero nei loro circoli velici snob di Belo Orizonte, Vasco de Gama, Botafogo, Flamengo, dove andavano alle prime partite “azzimati e profumati” come a teatro. Mentre i neri ed i mulatti giocavano per le strade delle favelas, con la palla di stracci e i piedi scalzi. Come quelli di via Cremona….che fornì diversi buoni giocatori, anche un portiere del Parma AS, Luigi Costantini. Arriva anche l’epopea del monumentale Pelé e, con ancora più fascino, di Garrincha, lo scricciolo re della finta e del dribbling, che “giocava con il pallone come il gattino gioca con il gomitolo di lana“.

 

 

Il primo calcio in TV

Non si può non ricordare il primo campionato mondiale trasmesso in TV: in Svizzera, 1954, vinto dalla Germania. In una entusiasmante, incredibile partita, la Nazionale tedesca rimontò lo 0-2 contro la grande Ungheria di Hideguti, Puskas, Boksic, che aveva umiliato gli inglesi con un sonoro 7-1, dopo aver battuto l’Italia con un ‘accettabile’ 3-0.

 

Il Times di Londra, quotidiano noto per i suoi grandi servizi sportivi sul rugby, sull’ippica, sul cricket, sull’atletica leggera e sul tennis, a seguito di questi clamorosi risultati, conclamò il calcio come il più interessante fra gli sport in quanto “unpredictable“, imprevedibile.

Mi considero una persona fortunata ad aver potuto attraversare e godere, con il gioco del calcio, questo lungo periodo costellato da momenti belli, creativi e da storici cambiamenti: dalle polverose via Cremona, Viale Piacenza, al cortile su terra battuta dell’Oratorio dei Salesiani, insostituibile scuola di educazione; per passare ai mitici campi – quello “centrale”, e “l’altro” della Cittadella – con qualche puntata allo stadio Tardini, dove giocava il Parma AS, ed in tanti altri luoghi. Voglio ricordare il torneo nel 1963 a Strasburgo, la sede provvisoria del Mercato Comune Europeo, l’Istituzione che ha avviato la ricostruzione economica ed il riavvicinamento politico dell’Europa. Era, per certi versi, la Nazionale universitaria, anche se sette degli undici titolari studiavano all’ università di Parma.

 

Beautiful game. Ugly Business

Questo è il fascino di questo sport, cresciuto da passatempo domenicale – oggetto di interminabili discussioni in ogni bar, nei luoghi di lavoro, a scuola – a grande business planetario, cui il settimanale inglese “The Economist”, qualche anno fa, ha dedicato una coraggiosa copertina con un perentorio slogan: “un gioco bellissimo per un business orrendo“.

Il divertimento che mi ha permesso di vivere questo sport, le amicizie che mi ha offerto, inossidabili e consolidate, le opportunità di confronto leale con tanti avversari sono valori che mi hanno segnato profondamente. E oggi, anche se molto cambiato, vorrei ricordarlo per come l’ho vissuto.

Mi viene in aiuto la frase dello scrittore Albert Camus, peraltro un ottimo portiere:

tutto quello che so sulla moralità, sul rispetto, sul dovere degli uomini, sul sacrificio che richiede il voler raggiungere un sano obiettivo, lo devo al calcio.

Albert Camus, premio Nobel 1957 per la letteratura, portiere della juniores del RUA (Racing Universitaire d’Alger)


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